Covid-19 in Palestina
Focus sull’epidemia covid – 19 e impatto sulle attività progettuali
I primi casi di coronavirus in Palestina risalgono al 5 marzo, con i primi 7 positivi, i dipendenti dell’Angel Hotel di Beit Jala. Immediatamente gli spostamenti da e verso Betlemme sono stati fortemente interdetti, per evitare la propagazione del contagio.
L’8 Marzo l’Autorità Nazionale Palestinese dichiara lo stato di emergenza, della durata di un mese in virtù del quale, gli spostamenti tra governatorati sono ridotti e cominciano a chiudere i luoghi di culto e le prime attività commerciali considerate non essenziali.
Nella Striscia di Gaza, una delle zone più densamente popolate del pianeta (quasi 2 milioni di persone che abitano un lembo di terra ampio 360 Km quadrati) il primo episodio di contagio si è verificato il 22 Marzo.
In tutta la Palestina tutti gli istituti di istruzione chiudono il 6 marzo, non riapriranno se non per gli studenti che devono affrontare le prove di maturità (Tawjihi) alla meta di giugno. Tuttavia, altri aspetti della vita quotidiana, tra cui commercio e servizi, non sono stati particolarmente limitati fino al 22 marzo, quando le autorità ordinano la chiusura dei mercati settimanali, dei ristoranti e dei caffè e luoghi di ritrovo e proibiscono lo svolgimento di eventi pubblici, delle preghiere del venerdì e di qualsiasi altro tipo di assembramento. Unica deroga alla chiusura totale, i negozi di alimentari e le farmacie con aperture concesse dalle 10.00 alle 17.00.
Lo status di emergenza si conclude il 3 Maggio con una progressiva riapertura nelle settimane successive di alcuni esercizi commerciali, in particolare nei 10 giorni precedenti la fine del Ramadan (17-27 Maggio). A seguito della festa di fine Ramadan, Eid al Fitr, anche altre categorie di esercizi commerciali e uffici riaprono con una certa regolarità. Tuttavia da allora al nuovo lockdown dei primi di luglio, alcune delle città più a rischio sono state chiuse più volte, limitando gli accessi e le uscite delle persone.
Dal 17 al giugno i casi di positivi sono quadruplicati in Cisgiordania, passando a 690 casi registrati il 16 giugno a 2.765 il 30 giugno. L’epicentro del contagio è nel Governatorato di Hebron che ancora oggi detiene il record di infetti di tutta la Palestina, 78%, seguito dai governatorati di Betlemme, Nablus e Gerusalemme.
In risposta, l'Autorità palestinese ha ripristinato severe restrizioni di movimento sulle zone più colpite e ha adottato una serie di misure aggiuntive volte a contenere la pandemia. Un nuovo lockdown totale (con le stesse caratteristiche di quello implementato a Marzo) è stato imposto a partire dal 2 luglio fino al 7 e rinnovato ora fino al 13 luglio. Aumentano esponenzialmente i contagi a un ritmo di circa 200 in 24 ore. La dichiarazione dello stato di emergenza implica che solo i canali istituzionali sono autorizzati a fornire informazioni legate all’epidemia e alle misure che vengono adottate, tuttavia alcune aree, specialmente quelle rurali e remote, risultano più difficilmente raggiungibili dalle informazioni corrette, e di fatto diventano più esposte al rischio.
Il Ministero della Sanità palestinese e le organizzazioni umanitarie continuano a lamentare le mancanze nelle forniture per i laboratori e di altri dispositivi medici fondamentali, tra cui respiratori salvavita e apparecchiature essenziali dell'Unità di Terapia Intensiva (ICU).
La pandemia del Covid-19 ha in tutto il mondo, esposto con maggior violenza, le categorie più vulnerabili della società. Nei territori palestinesi l’intera popolazione corre maggiori rischi che altrove, tuttavia si possono segnalare delle categorie particolarmente a rischio.
I campi profughi
I campi profughi sono i luoghi più a rischio di malattie e infezioni in momenti di pandemie a causa di sovraffollamento, mancanza di servizi igienico-sanitari e infrastrutture generalmente scarse.
I campi riconosciuti da UNRWA sono 19 in Cisgiordania, 246.000 abitanti e 8 a Gaza, 1,4 milioni di abitanti, le strutture mediche attive riescono in tutto a servire il 53% dei rifugiati.
La salute dei rifugiati è particolarmente fragile, anche per l’uso ripetuto di gas lacrimogeni nei campi densamente popolati. Gli esperti medici dello Human Rights Center presso la School of Law dell'Università della California, Berkeley hanno espresso la loro grave preoccupazione per le conseguenze per la salute di tale esposizione cronica da parte dei rifugiati alle sostanze chimiche utilizzate nei gas lacrimogeni. Ciò è particolarmente grave nei campi profughi della Cisgiordania, dove l'IDF conduce operazioni militari in almeno due campi al giorno, con pesanti impatti clinici e psicologici. L’uso diffuso di gas lacrimogeni risulta essere sproporzionato e indiscriminato. Nella relazione, i residenti hanno descritto vari effetti fisici da tale frequente esposizione a gas lacrimogeni, tra cui perdite di coscienza, aborti spontanei, difficoltà respiratorie, asma, tosse, vertigini, eruzioni cutanee, dolore grave, dermatite allergica, mal di testa, irritabilità neurologica e persino traumi contundenti dovuti ai colpi diretti dei gas lacrimogeni.
L'UNRWA, che si occupa di tutti i servizi nei campi, ha adottato misure preventive chiudendo tutte le 144 scuole, presenti cui sono iscritti circa mezzo milione di studenti. L'agenzia ha anche istituito un numero di emergenza medica nel tentativo di limitare il numero di visite fisiche alle loro cliniche sul campo. Tuttavia le misure a cui si è ricorsi non sarebbero assolutamente sufficienti a fronteggiare un’esplosione della pandemia nei campi.
Gaza
Nonostante le precauzioni delle autorità locali che hanno istituito i centri di quarantena e imposto a chiunque entri nella Striscia, 21 giorni di quarantena obbligatoria, la situazione a Gaza resta particolarmente grave. Il sistema sanitario è annichilito dal decennale blocco israeliano, dal divario interno palestinese, da un deficit cronico di risorse e di personale specializzato, medicinali e attrezzature. Le persone che vivono in condizioni di sovraffollamento, come i profughi dei campi o le persone a Gaza sono maggiormente esposte a un rischio di contagio a causa dei precari sistemi igienico-sanitari, tra cui l'approvvigionamento idrico scadente e irregolare e i bagni condivisi.
L'impatto del blocco, i tre più recenti attacchi militari israeliani e, più recentemente, l'effetto dell'alto numero di vittime della "Grande Marcia del Ritorno", rendono la situazione umanitaria della Striscia oltremodo precaria. Allo stesso tempo, la fornitura di servizi sociali è stata fortemente ridotta a causa di restrizioni e difficoltà di accesso (anche da parte delle organizzazioni internazionali).
L'impatto macroeconomico del COVID-19 nel lungo periodo solleva gravi preoccupazioni, data la situazione economica già drammatica: Gaza ha un tasso di disoccupazione pari quasi 43% nell'ultimo trimestre del 2019, la disoccupazione giovanile al 64% e circa il 53% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà.
Le comunità beduine
Ci sono circa 40000 beduini in Palestina, molti dei quali sono rifugiati che si sono al momento stanziati nelle aree di Betlemme Hebron e Gerico. Alcuni beduini vivono nei campi profughi, ma non tutti sono registrati come rifugiati UNRWA, quindi non possono accedere ai servizi offerti. Alcuni di loro vivono nelle Aree C della Cisgiordania in una comunità che in tutto conta 27000 persone che vivono principalmente di pastorizia. Soffrono di restrizioni alla libertà di circolazione, della costruzione ed espansione di insediamenti illegali, regimi restrittivi di pianificazione urbana, confische di terreni, mancata emissione di permessi edilizi, demolizione delle loro proprietà e beni. Geograficamente isolati, i beduini vivono in zone che sono spesso prive di un adeguato accesso alle strade. La diretta conseguenza di tutto ciò è che non hanno accesso ai servizi essenziali e che non avendo la possibilità di costruire, si trovano molto spesso a vivere in condizioni igienico sanitarie inadeguate. L’utilizzo dell’acqua raggiunge a fatica i 20 litri pro-capite al giorno, che secondo le Nazioni Unite sono la quantità minima per sopravvivere nelle aree colpite da tragedie umanitarie e secondo l’organizzazione mondiale della sanità è appena un quinto del consumo di acqua consigliato giornalmente.
I detenuti
I prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane sono attualmente 5000: 180 dei quali sono minori di 16 anni e 43 sono donne, 700 sono ammalati, buona parte dei quali affetti da patologie croniche.
Nelle carceri c’è una politica di negligenza nel fornire assistenza medica. L'ambiente della prigione svolge un ruolo importante. La maggior parte delle carceri sono vecchie e non sono in linea con gli standard internazionali in termini di dimensioni e architettura; insetti e roditori sono dappertutto e il clima è rigido. Le amministrazioni carcerarie trascurano le loro responsabilità nei confronti delle esigenze di igiene personale e pubblica e non adottano le misure opportune per garantire la salute dei detenuti e delle detenute. La salute è fortemente compromessa dalle condizioni di sovraffollamento nelle celle a causa dell'aumento del numero di detenute e detenuti nel 2014.
Il Centro Palestinese per i Diritti Umani (PCHR) segue da vicino le condizioni dei prigionieri palestinesi nelle prigioni israeliane, a seguito della diffusione del Coronavirus in Israele. Il PCHR rileva il deterioramento delle condizioni di salute dei prigionieri, e sottolinea in maniera particolare che le forze di occupazione israeliane non hanno rispettato le norme minime standard per il trattamento dei prigionieri stabilite nelle Convenzioni internazionali, in particolare la Quarta Convenzione di Ginevra.
L'avvocato delegato di PCHR in Israele ha chiesto di visitare i suoi assistiti per verificare le loro condizioni di salute a seguito delle notizie sui primi episodi di contagio all'interno di prigioni israeliane. Il 18 marzo 2020, l'avvocato del PCHR ha ricevuto la risposta dal Servizio Penitenziario di Israele (IPS) che gli negava di visitare fino a nuovo avviso, in base allo stato di emergenza dichiarato in Israele a seguito della propagazione del COVID-19.
I cittadini di Gerusalemme Est
Viene largamente riportato come i cittadini di Gerusalemme Est come sotto-serviti da parte dei servizi israeliani: non vengono effettuati tamponi, non vengono fornite informazioni, i servizi sanitari sono scarsi e le comunità sono isolate a causa dal muro di separazione e non possono accedere a servizi forniti dall’Autorità Palestinese. In aggiunta, l’operato di ONG e Agenzie ONU viene decisamente limitato nel caso di Gerusalemme Est, viste le restrizioni di movimento e accesso già in essere e ulteriormente inasprite alla luce del COVID-19.
I lavoratori palestinesi in Israele
I lavoratori palestinesi in Israele sono da sempre trattati con una certa ostilità dalle autorità israeliane: sessioni di controlli ai checkpoint lunghissime, permessi negati o non rinnovati. Con l'inizio dell'epidemia, le autorità di occupazione israeliane hanno permesso a circa 60.000 lavoratori palestinesi (improvvisamente diventati forze di lavoro essenziali e quindi impossibilitati all’esonero dal lavoro) di risiedere temporaneamente in Israele per un periodo massimo di due mesi durante l'emergenza sanitaria. I datori di lavoro israeliani sono stati incaricati di garantire alloggi adeguati, servizi igienico-sanitari e cibo per i lavoratori.
Tuttavia, i lavoratori palestinesi hanno dovuto affrontare condizioni abitative disastrose e sono stati costretti a dormire nei cantieri o nelle serre, mentre coloro che manifestavano sintomi del virus, sono stati abbandonati ai posti di blocco senza che venisse fatto un coordinamento per garantire loro il dovuto trattamento medico. Allo stesso tempo, le autorità israeliane si sono rifiutate di effettuare i test sui lavoratori palestinesi, non adottando misure adeguate per frenare la diffusione della pandemia nel territorio palestinese occupato, e hanno ulteriormente minato gli sforzi di contenimento e mitigazione da parte dell'Autorità palestinese per i lavoratori di ritorno. Il Ministero della Sanità palestinese ha rilevato che i lavoratori, le loro famiglie e i loro contatti costituiscono la maggior parte delle infezioni da COVID-19 in Cisgiordania.